Ovviamente bisogna prima fare chiarezza sul significato del termine che non è la traduzione di riciclo (altrimenti sarebbe recycling), bensì di riutilizzo e non si tratta solo di nomenclatura, ma anche di significato.
Il semplice riciclo ha come obiettivo rispolverare un vecchio oggetto/abito assegnandogli la stessa funzione, ma proprio perché si tratta di un qualcosa di obsoleto il suo valore è comunque depotenziato.
L’upcycling, invece, significa dare nuova vita, riutilizzare gli oggetti/abiti per creare un prodotto di maggiore qualità, reale o percepita, e in alcuni casi reiventando anche la loro funzione.
Siamo davvero su piani completamente diversi che portano con sé una filosofia di vita, un approccio, un’etica differenti.
Ora, cosa sta succedendo oggi e perché va tanto di moda?
L’upcycling si inserisce in un fenomeno in crescita che certamente il 2020, con la pandemia, ha accelerato moltissimo.
Da tempo nel mondo della moda di parla di riutilizzo perché da un lato la iper produzione degli ultimi anni ha mandando in crisi in sistema con conseguenti eccessi di stock, capi invenduti da smaltire e finiti in canali paralleli, inquinamento del mercato con la nascita di realtà come outlet, siti e-commerce che se da un lato hanno aiutato a fare ‘cassetto’ dall’altro svendendo il prodotto hanno impattato anche sul posizionamento e il valore del brand…tanto che alcuni marchi, vedi Hermes, preferisce bruciare pile di borse, piuttosto che vederle finire in qualche sito web.
Dall’altro c’è il grande tema dell’inquinamento, della sostenibilità, della creazione di un’economia circolare che si contrappone alla tradizionale economia lineare del “prendere, produrre, scartare”
Il fast fashion e comunque il mondo fashion genera una montagna di vestiti buttati via ogni anno e ha un enorme impatto sull’ambiente e si stima che a livello globale, ogni anno vengono creati circa 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili.
La pandemia ha aggravato la situazione al punto che il valore delle scorte in eccesso delle collezioni primavera/estate 2020 è stimato fra i 140 e i 160 miliardi euro nel mondo (tra i 45 e i 60 miliardi di euro solo in Europa), più del doppio dei livelli normalmente registrati per il settore.
Dove andranno a finire tutti questi vestiti??
Entro il 2030, si prevede che scarteremo più di 134 milioni di tonnellate di tessuti all’ anno. Gran parte del problema dipende dai materiali utilizzati per fare i vestiti, fibre non riciclabili, non biodegradabili e dalle fibre quasi sempre utilizzate in mischia e quindi difficili da riciclare e trasformare in nuove fibre e, soprattutto dalla loro scarsa qualità che ne permette un utilizzo assai limitato nel tempo.
Fortunatamente negli individui si sta radicando una nuova consapevolezza e in particolare in accordo con i mutamenti delle abitudini e della sensibilità delle nuove giovani generazioni di consumatori (millennial + Gen Z) il consumismo degli ultimi 30 anni sta lasciando il passo a un nuovo approccio.
Vi siete chieste come mai il vintage sia tornato di moda (mercato che oggi 24 miliardi di dollari ed è destinato a superare i 50 miliardi nel 2023) o perché hanno riaperto le sartorie di quartiere o gli atelier di moda?
E’ la risposta del sistema a una nuova domanda di qualità, unicità, etica.
Così come nel mondo food si è affermato lo slow food, quindi la ricerca di materie prime di qualità, a kilometro zero, prodotte artigianalmente così nella moda oggi viene premiata maggiormente la creazione di un abito su misura rispetto al capo logato, il tutto a parità di prezzo.
Come si può fare upcycling?
Tecnicamente, significa realizzare abiti e accessori partendo dall’esistente, che si tratti di un abito finito, di stock di magazzino, di pezzi vintage o di tessuti e materie prime inutilizzate.
E’ così che oggi brand emergenti, ma anche storiche maison o realtà del fast fashion stanno investendo strategicamente il loro futuro proprio su questa nuova frontiera.
L’attenzione torna sul processo creativo e sulla fase di progettazione che partendo dal capo da smaltire propone nuove forme per reimmetterlo sul mercato.
Il fashion designer (insieme al team dell’ufficio stile) infatti elabora e riadatta vecchi capi o comunque materiali di scarto conferendo un valore aggiunto al nuovo capo, trasformandolo in qualcosa di diverso, più prezioso e con un alto grado di creatività.

Abbiamo numerose storie di successo da citare come i capi della capsule collection Upcycled by Miu Miu, la cui base di partenza sono pezzi vintage anni Trenta – Ottanta, scovati in negozi e mercatini di tutto il mondo, poi rimodellati e decorati a mano nello stile della maison. Un totale di 80 abiti unici e numerati, disponibili in nove flagship store.

John Galliano è la mente dietro al progetto Recicla di Maison Margiela, che ha debuttato nella collezione all’Autunno Inverno 2020-21 con l’obiettivo di diventare un progetto continuativo del brand. Ciascuna Recicla è un pezzo vintage selezionato personalmente da Galliano, restaurato e ricondizionato come capo o accessorio in edizione limitata, identificato da un’etichetta bianca che ne specifica l’edizione limitata, la provenienza e il periodo.
Stessa cosa per la prima capsule collection sostenibile di Emporio Armani, che guarda al mondo del workwear e declina su parka, maglie e accessori il mantra I’m saying yes to recycling.
Ricordiamo poi Diesel, con il nuovo progetto, che mette al centro della creatività l’upcycling per realizzare collezioni che usciranno ogni sei mesi, realizzate da capi invenduti e riassemblati in nuovi capi, progettati da designer e artisti; Cos marchio di proprietà della svedese H&M, che sta sperimentando il riciclo, attraverso la piattaforma Resell, un nuovo tipo di commercio che consente alla community del brand di vendere i propri capi usati e di acquistarne di nuovi.
Esistono due modi per fare upcycling: “pre-consumer” o “post-consumer”, ovvero prima o dopo del consumatore.
>> Upcycling pre-consumer
Si utilizzano scarti di tessuto usato per confezionare un capo, quindi un tessuto che non è ancora passato dalle mani del consumatore.
>> Upcycling post-consumer
Si parla di vestiti già usati, in condizioni più o meno buone che vengono modificati.
Questi due tipologie di upcycling sono quindi messe in pratica da attori diversi: designers e marchi che recuperano vestiti oppure persone che vogliono semplicemente modificare un capo che non indossano più.
Quali sono i vantaggi dell’upcycling?
-
- Evitare gli sprechi
Oltre a evitare il rammarico per lo spreco, l’upcycling ci permette anche di ridurre l’impatto dell’industria della moda, tra le più inquinanti al mondo.
-
- Unicità
Se consideriamo la modalità più “casalinga” e fai da te dell’upcycling, ovvero intevenire direttamente o affidarsi al nostro sarto di fiducia, dare una nuova vita a un capo significa anche creare qualcosa di completamente unico e speciale per noi.
-
- Risparmio
Non siamo più abituati a intendere i vestiti come un bene duraturo, che ci accompagna per anni e che possiamo, perché no, passare alle future generazioni. Il fatto che i vestiti fast fashion costino così poco ci ha fatto diventare dei consumatori usa e getta e la vita media di un capo si abbassa sempre di più. Siamo passati dal prêt-à-porter al prêt-à-jeter, pronto da gettare: ma niente costa meno di riaggiornare o modificare vestiti che già abbiamo in casa!
I sondaggi hanno rilevato che durante la pandemia, complice il lungo lockdown, il 28% delle persone ha riciclato gli abiti!
E se non volete metterci mano direttamente provate a curiosare sul sito di Reborn Ideas dove trovate in catalogo abiti sartoriali realizzati con tessuti di recupero.
Reborn Ideas è il primo e-commerce italiano di ecodesign e moda sostenibile Made in Italy. I prodotti che troverete sul sito sono realizzati tramite upcycling, recycling, e materiali innovativi ecosostenibili.