Quando spiego – durante le consulenza con clienti business o i corsi di formazione in azienda – l’importanza del look per farsi scegliere, anche professionalmente, spesso le persone hanno reazioni di stupore o di rifiuto.
Molti infatti pensano che il look sia qualcosa di molto personale e quindi vivono come un’imposizione il suggerimento che il Consulente di Immagine offre per migliorare il proprio aspetto.
Su questo punto ovviamente sta a me tranquillizzare le persone – siano esse liberi professionisti o dipendenti – spiegando che l’obiettivo è esattamente opposto, ovvero aiutarli a trovare un Business Style che sia in linea con la loro personalità, ruolo professionale e contesto lavorativo.
Altra contestazione che viene fatta è la seguente: ”Ma come? Una persona studia, si prepara e poi tutta la partita è giocata sul look?”.
Facciamo chiarezza.
Il presupposto fondamentale nell’approcciare questo argomento è che per capire il valore dell’Immagine, per l’importanza di un look vincente, non bisogna mai partire dall’estetica ma bisogna partire dalla psicologia.
Infatti, la maggior parte delle nostre scelte, sia nella vita personale che nella vita professionale, sono più legate alla nostra sfera emotiva e comportamentale che a un qualcosa di logico, di razionale.
Provo a spiegare perché.
Il look è cronologicamente la prima informazione che arriva al nostro interlocutore e inevitabilmente influenza il suo giudizio su di noi, la sua predisposizione all’ascolto e quindi determina tutto quello che accadrà successivamente in termini di relazione, personale e professionale.
Perché quindi la psicologia comportamentale è rilevante nel creare il proprio look?
Quando creiamo il nostro look o scegliamo qualcuno per il suo aspetto sono tre gli aspetti fondamentali che prendiamo in considerazione.
1 – OMOGENEITÀ (od OMOLOGAZIONE):
Si riferisce alla tendenza a scegliere il proprio look imitando un personaggio, un’icona, una musa di cui si ammira gli interessi, i risultati raggiunti o i valori oppure imitando lo stile di un gruppo di persone. Quest’ultimo è l’atteggiamento tipico degli adolescenti che tendono a vestirsi tutti allo stesso modo per sentirsi parte del ‘branco’.
Vestirsi per omologazione viene giudicato spesso un approccio negativo, ma in realtà vuol dire essere ispirati da una persona con la quale si è innescato un processo di identificazione e riconoscimento e quindi si vuole portare anche all’interno del proprio aspetto, del proprio mondo parte di questo ecosistema di valori.
Quando le scelte si fanno per omogeneità (ad esempio durante i colloqui aziendali) vuol dire che chi ti seleziona, oltre ovviamente ad analizzare le tue competenze e capacità, cercherà anche una persona che riesca ad amalgamarsi bene nella struttura e nell’equilibrio aziendale, quindi in tutte quelle regole non dette che determinano l’ambiente sociale di quella determinata azienda, in questo caso si parla di policy e non di rigido dress code.
È per questo che molto spesso, a chi mi chiede consigli su come vestirsi per un colloquio, dico di fare “spionaggio sociale”: vai suoi social, cerca delle persone che lavorano in quella azienda e vedi qual è lo stile, quali sono i codici e inserisci qualcosa di quell’ambiente nel tuo abbigliamento, perché questo ti aiuterà subito ad essere molto più in sintonia.
2 – CONTRASTO (o DIFFERENZIAZIONE)
Il secondo approccio si pone esattamente all’opposto, cioè prendere le distanze da un modello, da un cliché per anticonformismo, per disinteresse nei confronti dello status quo prestabilito, per ribellione a un trend fashion, ma soprattutto sociale/culturale.
L’esempio più lampante di questa dinamica è lo stile degli startupper della Silicon Valley. Le loro scelte vestimentarie esprimono un preciso messaggio, ovvero contrapposti al mondo delle Big Corporations caratterizzato dai colletti bianchi, giacca e cravatta. Pensate a Mark Zuckerberg e alle sue ciabatte da piscina indossate a un’importante convention!
Tutte le persone come lui vogliono comunicare più o meno questo pensiero: “noi prediamo le distanze dai colletti bianchi, abbiamo competenze diverse, una visione del mondo diversa, dei valori diversi e quindi facciamo tutto diverso”.
Infatti hanno un abbigliamento molto più casual, staccato dalla tradizione, più vicino al mondo dei nerd! Pioniere assoluto è stato ovviamente Steve Jobs.
3 – STEREOTIPI
È il criterio più radicato di tutti e il più difficile da sormontare.
Quando si cerca un buon medico, ci sia aspetta di avere di fronte una persona che abbia anche “la faccia da medico”.
È una semplificazione per definire quell’impressione a pelle, che ti ci fa pensare “sì, mi sembra affidabile”.
La creazione del giudizio avviene in pochissimi secondi, quindi se sarà affidabile davvero lo si scopre solo molto dopo la nostra scelta di farci seguire da questa persona, se davvero ci guarisce o no.
Ma il colpo d’occhio significa che dentro di noi sono già precostituiti delle classificazioni, degli stereotipi appunto legati più a ciò che dovrebbe apparire, rispetto a ciò che è.
Tutto questo discorso mi fa tornare in mente la caverna di Platone e la sua mímesis
L’immagine (eikòn, èidolon) è infatti definita da Platone «una cosa che, fatta a somiglianza di una cosa vera, è distinta da questa e tale e quale la vera».
Questo discorso vale per tutti, per l’imprenditore, il notaio, il commercialista, per tutti gli uomini e donne in carriera o comunque che fanno un lavoro dove c’è una forte interazione con colleghi, clienti, con tutti i pubblici legati alla sua attività.
Se sei un Top Manager le persone con cui ti relazioni si aspettano che tu sia vestito in un certo modo.
Fortunatamente, a dire il vero, negli ultimi anni non è più così radicata questa situazione.
La gestione del welfare, della diversity all’interno delle aziende ha portato ad allargare le maglie anche in tema di stile e se prima la regola era attenersi al dress code o appunto allo stereotipo, oggi – forti dell’attenzione all’individuo non più considerato un numero, in ottica di omologazione, ma di risorsa, di ambassador del brand per cui lavora – l’attenzione è spostata dalla coerenza con la Brand Identity alla creazione di un Employee Branding dove ognuno possa esprimersi liberamente creando un proprio Business Style, in linea con la propria personalità e ruolo professionale da un lato e con le policy e il contesto in cui opera dall’altro.
Tuttavia, nell’immaginario comune persiste lo stereotipo, che di fatto rappresenta uno strumento di prima scrematura e solo dopo si dà spazio approfondimento.
Quindi va da sé che s ci si presenta alla prima occasione nel modo giusto – la famosa buccia d’arancia – anche corrispondendo a uno stereotipo in una percentuale vicina al 60%, si ha poi la possibilità di prendere le distanze da questo e affermare la propria identità.
Con questo non dico che si debba dare un’immagine lontana dalla nostra vera essenza, infatti ho parlato di avvicinarsi allo stereotipo con una percentuale del 60%, l’altro 40% deve comunque esprimere chi siamo davvero, affinché nessuno resti deluso o pensi che siate Dottor Jekyll e Mister Hyde.
La promessa di chi siamo va mantenuta, ma visto che non si vive come eremiti, ma in un mondo dove la socialità è la base delle relazioni ci può stare che si cerchi di trovare un buon compromesso.
Come dico sempre bisogna conoscere molto bene le regole del gioco per decidere di rompere lo schema e capovolgere una situazione.
Il nucleo del lavoro di un Consulente di Immagine sta proprio nell’armonizzare la persona innanzitutto con sé stessa lavorando, a partire dal look, su concetti di autostima, fiducia, consapevolezza, sicurezza e poi con il contesto che la circonda sia esso l’ambito privato o professionale.
E’ un viaggio, con diverse tappe di evoluzione.
Non bisogna avere fretta, ma la voglia e la determinazione per arrivare all’obiettivo e l’apertura mentale al cambiamento.
E’ in poche parola lavorare alla propria VISUAL IDENTITY, come area fondamentale di un più ampio percorso di PERSONAL BRANDING.
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